CRISI: UN PERICOLO O UN’ OPPORTUNITà?

Nonostante ciò, mentre la storia ci impone la sua ciclicità e ci espone quanto i periodi di recessione siano essenziali e inevitabili per ristabilire ordine nei sistemi, scorgere nella parola “opportunità” un fulcro di speranza è essenziale per la sopravvivenza umana.

«Scritta in cinese la parola crisi è composta da due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità», asserì John Fitzgerald Kennedy. A distanza di oltre un anno dall’inizio della pandemia, questa probabilmente apparirà un’affermazione cinica, forse priva di fondamento, considerando la sofferenza che ognuno di noi sta intimamente affrontando e l’impossibilità di poter rintracciare una via di fuga. Nonostante ciò, mentre la storia ci impone la sua ciclicità e ci espone quanto i periodi di recessione siano essenziali e inevitabili per ristabilire ordine nei sistemi, scorgere nella parola “opportunità” un fulcro di speranza è essenziale per la sopravvivenza umana. In riferimento all’attuale situazione sanitaria e globale, in cui i settori tessile e moda hanno subito cali di fatturato e perdite ingenti, è quasi inverosimile pensare che nel Medioevo la nascita e l’estensione del lusso abbiano avuto luogo in seguito alla fine della peste nera che colpì l’Europa nel 1347. Eppure, secondo quanto riportato da fonti storiche, in Italia fu proprio tale pandemia a porre le basi affinché la domanda di consumo nel settore incrementasse, e la professione sartoriale acquisisse spessore. Il nuovo contestoeconomico del quattordicesimo secolo – periodo in cui la volontà e la capacità di spesa erano fortemente aumentate – venne generato dalla perdita di un terzo della popolazione europea a favore di quella superstite che, oltre a ereditare patrimoni ingenti, avviò la formazione della neo-classe borghese. Nonostante tale avvenimento storico portò a una recessione abissale e a una perdita di capitale umano inestimabile, si rivelò uno dei fattori fondamentali per la genesi dell’epoca moderna. Del resto, non fu né il primo né l’ultimo grande tracollo economico che l’umanità dovette sostenere: basti pensare che solo negli ultimi cento anni, l’Occidente e il mondo intero hanno affrontato due guerre mondiali e tre successivi periodi di inquietudine e smarrimento. Fu proprio tra i due grandi conflitti globali che, nel 1929, si verificò la Grande Depressione e il conseguente crollo della Borsa di Wall Street. Il settore tessile e dell’abbigliamento – uno dei più rilevanti tra i comparti dell’economia francese – accusò un durissimo contraccolpo. Per sopperire a tale situazione di stallo che paralizzò le esportazioni e i consumi, l’Haute Couture riuscì a preservare la propria posizione di leader mondiale grazie all’implementazione di una strategia ponderata, verso fasce di mercato con capacità di spesa differenti. Proprio in quell’epoca, per merito della collezione “Les robes d’édition” di Lucien Lelong – confezionata per un pubblico non elitario – si posero le basi per la produzione del prêt-à-porter nel secondo dopoguerra. Non meno dissestante fu lo sconvolgimento petrolifero che ebbe origine negli anni Settanta: il luccichio del periodo d’oro susseguito al secondo conflitto bellico si stava lentamente affievolendo. Tuttavia durante questo decennio, celebre per l’instabilità politica e le varie rivolte giovanili, sia in Italia che nel resto del mondo vi furono profonde trasformazioni sociali e dei media. Le nuove generazioni si fecero portavoce di tale mutamento e alimentarono una cultura inedita che attraverso musica, abbigliamento, proteste studentesche e movimenti politici, diede vita a nuove forme identitarie che si manifestarono nei consumi. Questa svolta culturale provocò cambiamenti di tendenza nel fashion system creando un distacco dalla visione classica che aveva caratterizzato l’iniziale affermazione internazionale della moda italiana. Tale periodo storico fu un momento cruciale per il consolidamento della cultura femminista e LGBT, con una complessiva ridefinizione dei canoni estetici binari e la comparsa dei primi indumenti unisex. Infine, negli ultimi vent’anni, l’incessante globalizzazione ha ulteriormente trasformato il settore dell’abbigliamento, e l’ingresso della Cina nel WTO ha generato una forte pressione competitiva sul sistema manifatturiero del Bel Paese, rendendone le produzioni di fascia medio-bassa poco competitive rispetto alla concorrenza estera. Questi fattori hanno incentivato i poli produttivi tessili e tutta la filiera a un ripensamento del loro ruolo sulla scena internazionale, fino all’arrivo della crisi finanziaria del 2008. Tale contrazione economica ha determinato l’uscita dal mercato di tutte le aziende finanziariamente deboli e incapaci di reinventare la propria offerta di fronte a un mutamento della domanda. A discapito di ciò, negli anni successivi, i distretti industriali italiani sono stati protagonisti del rientro nel Paese di alcune grandi imprese del lusso antecedentemente delocalizzate all’estero. Questi brand, pur mantenendo oltralpe i propri centri direzionali, hanno implementato l’insediamento di laboratori di progettazione e fabbricazione nel comparto della pelletteria e delle calzature di fascia medio-alta, alta e di lusso all’interno delle aree nazionali specializzate. Alcune di queste aziende, rilevando nella prossimità fisica di una filiera molto flessibile un’ottima opportunità per andare incontro alle esigenze del mercato, hanno optato per acquistare direttamente tali unità produttive esterne. Questo fenomeno, nominato back-reshoring, ha permesso al sistema della PMI italiana di conquistare una posizione di leadership a livello internazionale, amplificando l’eco del know-how artigianale, da sempre punto cardine nell’istituzione dell’etichetta Made in Italy. Alla luce di tali considerazioni, la moda post-Covid ha esibito nel suo stadio embrionale i primi segni di cambiamento destinati ad avanzare nei periodi a venire. Innegabile come l’utilizzo di strumenti digitali a supporto dei fashion show e la creazione di spazi phygital abbiano non solo abbattuto il concetto di partecipazione esclusiva, ma siano stati in grado di apportare innovazione e trasformazione all’interno di un settore che è sempre stato molto guardingo verso la tecnologia. L’implementazione della vendita on-line, fino a dieci anni fa ostracizzata dalle maggiori maison perché estrometteva la componente esperienziale, oggi diventa la chiave di volta su cui investire capitali ed energie. Proprio per merito di tale rinnovamento, il mercato del lavoro del fashion system necessita di profili sempre più specializzati nel rendere l’UX (User Experience) maggiormente fruibile, e di figure manageriali che indirizzino le proprie competenze per sedurre il consumatore 2.0. Il retailing, nonostante resti sacro e inviolabile, è destinato ad avere un ruolo secondario nel futuro: il mattone non continuerà ad assicurare le principali entrate, ma sarà comunque indispensabile per esporre e comunicare la visual identity del brand, quando si potrà riprendere a passeggiare spensieratamente scrutando le vetrine delle vie della moda. In un anno in cui “status quo” è un’espressione vigente, grandi rivoluzioni e sorprendenti scoperte nel settore continuano ad avere luogo. L’approdo di Kering nel mercato del second-hand, con l’investimento di 178 milioni nella piattaforma Vestiaire Collective, ha scosso le coscienze sui nuovi orientamenti strategici che la conglomerata sta instradando. Per quanto possa apparire paradossale, Pinault ha affermato pubblicamente che il mercato parallelo dell’usato di lusso è un trend che un gruppo di tale entità non può permettersi di ignorare. Nonostante i colpi di scena abbiano superato le aspettative e smentito i più scettici – che nella tecnologia ravvisavano un nemico piuttosto che un alleato – davanti a una chiusura di bilancio 2020 con una contrazione media del -26% per le imprese nazionali del settore, quando si tornerà a parlare di ripresa economica? A partire dal terzo trimestre 2021 le indagini condotte da Confindustria Moda hanno profetizzato una lenta convalescenza dalle perdite registrate, per merito anche di un recupero parziale di vendite all’estero. Auspicando una decisiva crescita nel quarto trimestre, prima di tornare ai livelli di normalità pre-Covid, bisognerà attendere che il 2022 cominci e che le sofferenze finanziare delle piccole e medie imprese che compongono la filiera produttiva si allevino. In assenza di flussi turistici in entrata e di piani di vaccinazione efficaci, le sorti della moda a livello internazionale rimangono comunque un’incognita, dunque l’unica azione che è possibile intraprendere, all’alba di una nuova era, è incoraggiare le aziende fashion a dotarsi di tecnologie all’avanguardia, senza trascurare la realizzazione di un’economia più improntata sulla sostenibilità. Einstein stesso affermava: «Non pretendiamo che le cose cambino [o migliorino, aggiungerei] se continuiamo a fare le cose nello stesso modo».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *